Oggi è domenica e dev’essere la giornata dell’Amore Cosmico, a Boston.
Ore 10 a.m.
Sto litigando col display delle blue bikes di Garden Street, non una band di rockabilly femministe, bensì le biciclette a nolo seminate un po’ ovunque dalla solerte amministrazione locale. Si avvicina un sosia di Clark Kent, chiaramente reduce dalla sessione mattutina di running. Al suo “What’s goin’ on?”, do sfogo al mio disagio: malgrado abbia introdotto la Santissima Carta di Credito, non ho ricevuto il fottuto codice per sbloccare una bici dallo stallo. Joe, questo il suo nome, impugna il cellulare e chiama il numero verde delle blue bikes. Risponde la soave vocina di Shirley, cui spiego il problema in un inglese impeccabile dopo una settimana di New Hampshire. Shirley capisce e risolve. Sempre gentile, sempre calma. Mentre la ringrazio, coccolandomi il mio pass code, immagino tempestività, diligenza e cortesia di un qualsiasi call center italico disturbato di domenica mattina, magari col sole che brilla fuori dalla centrale operativa, magari con la sbronza del sabato da smaltire. Non è il momento di deprimersi, sono in America. Sgrullo via il pensiero molesto e ringrazio pure Joe, che si presta al mio selfie da forever friends. Poi monto in sella alla conquista di Boston.
Cambridge
Ore 1 p.m.
Sto passeggiando leggiadro tra gli imponenti palazzi giorgiani di Back Bay. All’altezza di Copley Square, m’imbatto in un bizzarro sit-in circolare. Centinaia di donne col capo velato e di uomini con la gonna occupano il centro della piazza, alcuni inginocchiati su un telo verdastro, altri intenti ad impastare donuts o a fotografare i figli. Lo spettacolo, di per sé curioso, diventa straniante ai bordi del cerchio: decine di ragazze asessuate distribuiscono volantini ai passanti che mostrino interesse all’evento. Già che io sono senza dubbio un passante e paio mostrare interesse all’evento, attiro l’attenzione di Zara, fervida attivista dal sorriso degno di miglior causa. La sua intenzione è convertirmi all’Islam, lì, subito, annichilendo cinquant’anni di cattolicesimo più o meno coatto, in nome della giustizia e della pace: «Perché nel mondo oggi ci sono troppe guerre, gli uomini non si amano, gli uomini devono ritrovare l’armonia caldeggiata dal Profeta. E quale giorno migliore dell’anniversario della sua nascita?».
Ora è chiaro ciò che ha spinto questa gente a radunarsi in Copley Square e davanti alla Trinity Church, chiesa solenne dal nome vagamente riconducibile al cristianesimo: festeggiano il compleanno di Maometto!
Indosso il tono di voce più suadente. Dear Zara, sei giovane – avrà sì e no diciott’anni – e, sotto al foulard nero, i tuoi evidenti tratti arabi sembrano gradevoli, il che accresce il valore della dedizione alla causa musulmana: potresti gonfiarti di birra e regalare il corpo a Mike o Bobby, come le tue coetanee w.a.s.p.; invece passi la domenica a volantinare. Ma stai perdendo tempo, non tanto per i miei precari sacramenti o perché non voglia anch’io un mondo di giustizia e pace, quanto perché penso che ciò non dipenda dall’Islam. Anzi, sono convinto che non dipenda da nessuna religione. E poi non sai dirmi quanti anni compie esattamente il Profeta, millequattrocento e rotti, «Sir, aspetti che chiedo»: se vuoi redimermi, devi fornirmi dati certi e persuasivi.
Si dia atto a Zara di incassare il mio pistolottone catto-comunista con estremo garbo; mi ringrazia perfino per averla ascoltata, non dev’esserle capitato spesso oggi, tra turisti a caccia del wow! e bostoniani che corrono, incredibile come corrano tutti in questa città la domenica. C’è pure la regata sul Charles River a pochi isolati da qui: troppi ostacoli per una missionaria teenager che forse vorrebbe ubriacarsi e copulare come le compagne di scuola.
Newbury Street
Ore 2 p.m.
Mi allontano da Copley Square mentre al microfono una donna sta recitando a volumi irritanti una preghiera o un canto o un’invettiva. L’obiettivo è il fiume, dov’è in corso una regata di canottaggio che pare avere tradizione multimillenaria. Giro su Beacon Street e incrocio una barbona nera con un carrello. Guarda fissa davanti a sé e, superando l’audio della musulmana, intona ossessiva una frase: «The trees are dying, the fire is the… The trees are dying, the fire is the… The trees are dying, the fire is the…».
La fine dell’oracolo non la capisco, nonostante la donna lo stia ripetendo decine di volte e io sia di fatto diventato madrelingua. Fermo il primo tizio nei paraggi affinché mi aiuti nella translation, ma neanche Paul riesce a decifrare il ruolo del fuoco nella cantilena della nera. Per dare un senso alla conversazione, chiedo a Paul come raggiungere il Charles River e, nella giornata bostoniana dell’Amore Cosmico, lui si offre di accompagnarmi.
Lungo il tragitto, quest’uomo dagli occhi acquosi, la pelle rosa e l’abbigliamento anonimo, mi rivela di vivere a Boston da quarantasei anni: «Ma la città non è più la stessa, stanno costruendo dappertutto, chi va in pensione fugge nel New Hampshire, lì la vita costa meno», ecco da dove vengono i branchi di vecchi che ho visto nelle White Mountains!
«Una volta, a Back Bay si sentiva l’odore salato del mare», dice proprio “salted” Paul, «oggi lo smog copre tutto». Poi passiamo in rassegna professione – fa l’infermiere – e venerazione per l’Italia. È stato a Capri e a Roma: destabilizza constatare quanti “ammericani” amino la nostra terra disastrata; dovremmo amarla noi per primi, magari cominciando ad esporre il tricolore tutto l’anno – come fanno qui – non solo quando c’è un ipocrita 25 aprile da celebrare.
Charles River
Ore 3 p.m.
Arriviamo a Fairfield Road, da qui parte il ponte pedonale che sormonta la highway e scende alla Charles Esplanade, la postazione ideale per assistere alla regata. Nel salutarmi, Paul mi stringe la mano con troppo vigore e gli occhi acquosi mi guardano con troppa intenzione: ecco spiegata la mancanza di accenni alla propria vita sentimentale durante la lunga passeggiata che ci ha visto parlare di tutto. Ecco spiegato anche il glissare sui miei apprezzamenti verso la popolazione femminile di Boston; probabile che la cosa a Paul importi poco. Amico americano, ti auguro davvero ogni bene, ma per oggi la giornata dell’Amore Cosmico non prevede altro.
Ore 4 p.m.
La regata è deludente. Non ci sono le orde di spettatori enfatizzate dalla Lonely e il tempo aggrottato accresce la malinconia. In anticipo sulla tabella di marcia, concedo una seconda occasione alla mia preziosa guida del New England: scavalco il Charles River, riattraverso Back Bay, mi tuffo nella splendida Newbury Street e, dopo una decina di minuti, entro nella Mary Baker Eddy Library, per visitarne il Mapparium.
La Lonely Planet stavolta non tradisce. Al costo di sei dollari ben spesi, mi infilano insieme a una dozzina di persone – nessun italiano – dentro un mappamondo dal diametro di dieci metri. Centinaia di lastre di vetro colorato si illuminano a turno, tingendo di rosso l’Angola, di verde il Messico, di giallo la Cina; è un fenomeno cromatico suggestivo e, quando partono le parole di Martin Luther King, Benazir Bhutto e Mandela, anche commovente. La rappresentazione geo-politica è ferma al 1935, anno dell’installazione: l’Africa mezza francese, l’Unione Sovietica immensa; la Jugoslavia, la Germania davvero unita, forse troppo. Per me, che passo ore a fissare cartine, è come stare a Gardaland; sono anche libero dall’ossessione di documentare, già che la guida ci ricorda ogni trenta secondi che è proibito fare foto o video.
Mapparium
Giusto alla fine, sazio dello spettacolo, approfitto di un letale attimo di distrazione della security per calare il cellulare all’altezza dell’inguine e schiacciare lo schermo, immortalandomi in un videoselfie d’antologia. Ho aggirato i divieti di catturare Michelangelo in Cappella Sistina, abbindolare gli yankee è una barzelletta.
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