La Route 112, che qui chiamano Kangamagus Highway, taglia in due le White Mountains, il cuore verde del New Hampshire. Quando mi ci ritrovo immerso, diretto da Conway a Lincoln, questa strada stretta tra i boschi supera ogni benevola aspettativa, derubricando a pallidissima imitazione della realtà la più definita delle fotografie ammirate in rete: nessuna lente è in grado di catturare le infinite sfumature cromatiche che scorrono lungo i suoi 50 km, ci vuole l’occhio umano e pure lui fatica. La Kangamagus è arte figurativa applicata alla botanica, i colori delle foglie evocano la morbida approssimazione di Monet, la guerra caravaggesca tra luci e ombre, l’aggressione psicotica di Van Gogh. È uno spettacolo dolce e pericoloso, minaccia di sequestrarmi il senno e darlo in pasto agli alberi: con la volontà in balìa della follia non sarebbe poi difficile tagliarmi via un orecchio.
Kangamagus Highway
Oggi giornata interamente dedicata alla perlustrazione del Crawford Notch State Park, in mezzo alle foglie in fiamme della route 302, se possibile anche più caleidoscopica della Kangamagus Highway. La mattina conquisto l’altero Mount Washington in cremagliera: tre ore di pendenze contro le leggi della fisica e mezz’ora di venti gelidi in vetta contro quelle della meteorologia. Il pomeriggio mi arrampico nei boschi delle White Mountains fino alle scivolose cascate di Arethusa, un’ora di salita e – mistero – un’ora e un quarto di discesa.
Parecchi gli incontri interessanti. Su tutti Kathy, un’indigena di North Conway che al bancone dell’Horsefeathers mi racconta la propria vita in trentotto secondi e pretende che io faccia altrettanto.
Mount Washington
Malgrado l’estenuante rincorsa al ponte coperto, lo sforamento odierno nel Maine ha trasmesso vibrazioni forti. L’oceano innanzitutto, le prime vere onde del viaggio, che tanto mancano al New Hampshire.
Un Atlantico arrabbiato e scuro diffonde fragranze fino all’entroterra, riempiendo le narici di sale quando la costa è ancora lontana. Gli vado incontro e scopro l’eleganza w.a.s.p. di Cape Elizabeth, tutta un fiorire di manieri addobbati di zucche. Circumnavigato il faro, entro a Portland, la cui sorprendente vicinanza architettonica col Vecchio Continente ne fa una perla rara nel panorama stantio delle città americane. Maestosi edifici in mattoncini rossi, gallerie e negozi di artigianato, archi, viuzze, perfino piazze: il centro luccica di diversità e compensa l’anonima invadenza del porto, sovraffollato di magazzini e fabbriche. Cammino senza meta per un’ora, poi recupero la Nissan e impazzisco.
Cape Elizabeth
Sobillato dalla Lonely, ho selezionato una decina di ponti coperti del New England, tra cui due nel Maine. Il primo – il Babb’s Bridge – dovrebbe trovarsi a sette, otto miglia da Portland: in realtà non esiste. Benzinai, cassiere, poliziotti non lo conoscono e il gps del Samsung performa come in Amazzonia. Nell’area di Gorham, dove lo piazza la Lonely, del ponte non c’è traccia; mi sposto allora a Windham e interpello Cody, in pausa sigaretta dal turno al Subway. Il ragazzo imbraccia l’I-Phone: eccola, la bandierina del Babb’s Bridge lampeggiare su Google Maps. Cody mi manda sulla 202, venti minuti e sei lì, man! La ricerca ne ha già mangiati una quarantina, ma ora è mero puntiglio. Il problema è che il fiume segnalato da Google non arriva mai e mi tocca molestare un paio di milf ferme a spettegolare dentro un pick-up. La meno grassa fa riapparire la bandierina rispedendomi a Windham, nella direzione da cui sono arrivato: standing ovation per Cody!
Quindici minuti dopo – siamo a un’ora e dieci di caccia al ponte – Windham mi riaccoglie tra le sue casette mansardate a listelli orizzontali. Proseguo come da dritte della cow girl, e finalmente la fiducia negli abitanti del Maine viene ripagata: compare il fiume, che oltrepasso con rinnovata baldanza, mentre le casette sono via via risucchiate dal bosco, in una crescente oscurità poco ospitale. Assecondate un paio di curve, spunta un tetto di legno, il tetto del Babb’s Bridge, di una meravigliosa modestia. Scatto un centinaio di foto, così da dare un senso alla sciocchezza di inseguire per due ore quattro assi di legno accatastate sopra un torrente, poi torno sulla 202: è sceso il crepuscolo e devo rientrare a North Conway, col buio e l’ansia di scartavetrare la Nissan sul dorso di un alce.
Babb’s Bridge
Al sesto giorno di New England l’ho trovato: il lago finto, quello dei cataloghi, quello dalla forma ovoidale con la spiaggetta farinosa, la cornice di alberi variopinti e perfino il moncone di roccia che lo sovrasta. Echo Lake, senti come suona bene! Ce l’ho dietro casa, a saperlo ci passavo tutta la settimana, stravaccato sulle sponde a scribacchiare dall’alba al tramonto, aspettando che alci, orsi, tigri albine e unicorni uscissero dalla foresta per abbeverarsi e leccarmi docili le mani, come a San Francesco. Ma lo scopro solamente oggi e tira pure un vento patagonico. Ci resisto un’oretta prima di avvertire blandi sintomi di assideramento e rientrare alla base, senza aver ammansito nessuna belva.
Echo lake
Ultimo giorno nel New Hampshire. Credevo di aver visto il meglio, il lago finto, la montagna finta, le cascate finte, i ponti coperti finti, la strada finta che attraversa i boschi finti: non ero ancora salito al Boulder Loop Trailhead. Quassù è tutto tremendamente vero e le White Mountains si denudano davanti ai miei occhi. Senza vergogna, come fa la natura. Sto guardando, dall’alto di questo maestoso sperone di roccia, quanto vissuto sei giorni fa dal basso dell’asfalto della Route 112 – la Kangamagus. Sulla strada gli alberi mi rovesciavano i colori sulla testa, dal picco sono io a intingere lo sguardo in questo immenso oceano di foglie che il vento increspa con dolcezza. Le tinte da lunedì si sono brunite, l’oro è diventato bronzo ma non vale di meno: lo spettacolo guadagna in morbidezza ciò che perde in sfavillio. Brillano ancora macchie di rosso, isolate, presto sfumeranno. E molti alberi sono già spogli. Il miracolo del foliage sta rinserrando la coda come un pavone che ha conquistato la femmina.
Boulder loop trail
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