Esistono oggetti in grado di travalicare la propria funzione e produrre felicità. Il vhs, su cui ho riversato il fragile filmino del matrimonio dei miei genitori, è una scatola nera rettangolare, dentro scorre un nastro nero con due rotelle bianche che girano. La sua funzione è replicare immagini sgranate di una vecchia cerimonia nuziale. Ma quando l’obiettivo stringe acquoso sui visi acerbi di Laura e Luigi, consapevoli e ignari della famiglia che saranno, e al bacio la basilica si scioglie nell’applauso, e fuori il riso sommerge il sagrato sfuocato, lì va in scena la mia vita prima di me: e quel rettangolo di plastica nera produce felicità.
Esistono oggetti anche più potenti, oggetti che la vita la cambiano. Nel 1984, folgorato dal blues di un fervente strimpellatore di Eko davanti alla chiesa grande di Arese, costrinsi i miei a regalarmi una chitarra classica. Da trentacinque anni, quello strumento di legno chiaro che omaggia il corpo femminile mi accompagna in ogni crocevia dell’esistenza, aiutandomi a scegliere la parte meno sbagliata del bivio.
Forca d’Acero
Una mattina dell’aprile 2013 entrai deciso nella concessionaria Piaggio di Cerro Maggiore per acquistare un veicolo motorizzato a due ruote, dalla guida elementare, senza marce, definito con disprezzo scuterone dai talebani della moto. Ero in ritardo di almeno un trentennio rispetto ai miei coetanei, che il motorino ce l’avevano da adolescenti e lo truccavano pure, ma a me, a quindici anni, l’arte della meccanica non interessava. E coltivavo un certo timore della velocità, maturato dopo che in quinta ginnasio avevo avuto la brillante idea di salire sul Ciao del mio amico Luca, il quale, perdendo aderenza in curva, ci aveva fatto – mi aveva fatto – precipitare sull’asfalto aguzzo di Mazzo, con escoriazioni varie e variopinte.
Credo che l’urgenza adulta di un mezzo più snello e anarchico della Megane galleggiasse dentro di me già dal 2009, l’anno in cui avevo salutato l’acquario dell’ufficio e affidato la mia indipendenza socio-economica alla redditività precaria di un B&B. Tuttavia ci vollero quattro anni di incubazione per scacciare i fantasmi giovanili e convincermi a rinunciare al suvetto da safari urbano, col cambio automatico e i sedili riscaldati, che tanto infoiava e indebitava i miei coscritti.
La provincia di Modena
Decisivo fu realizzare come lo scuterone avrebbe agevolato il pendolarismo casa-B&B, Legnano-Lago Maggiore: soprattutto nei giorni di festa, quando la A8 diventa la succursale dopata di Mirafiori e si accatastano cinquanta vetture per centimetro quadrato lungo i 40 km scarsi di autostrada. Quella mattina del 2013 uscii dalla Piaggio in groppa al mio nuovo Beverly 300 blu notte, e la mia vita tolse l’àncora: più audace, più leggera, più scomoda forse ma infinitamente più eccitante.
Ho portato il Beverly – il Beverly ha portato me – dove nessun suv avrebbe potuto. In Piazza Maggiore, Piazza Duomo, Piazza San Pietro. Sui ciottoli proibiti di Recanati, Ferrara, L’Aquila, Mantova, Ravenna. Mai però cavalcata fu più festosa di quando, nel 2016, io e Cristiana partimmo alla conquista della Sardegna, con le borse di tela appese ai lati dello scooter, come quei centauri di razza superiore e targa ariana capaci di caricare sulla Harley Davidson l’arredo di un trilocale.
Parcheggiavamo agili e gratis sulle spiagge di Capriccioli, Porto Pollo, Cannigione, laddove sciami di macchine impazzite si inscatolavano dentro minuscole piazzole di terra battuta arroventata, all’impudica cifra di cinque euro l’ora. E di rientro a Santa Teresa dalla Costa Smeralda, aggirate le file isteriche di auto ferme, galoppavamo sulle strade profumate della Gallura, senz’altro ostacolo che la nostra fantasia, mentre un tramonto ferito sgocciolava sangue nel cielo. La carezza più intensa arrivò una domenica, all’alba, nello splendore di una Provinciale 81 deserta, allorché fiancheggiammo la costa nord fino a Stintino e c’imbarcammo per le terre selvagge dell’Asinara.
Fu grazie al viaggio in Sardegna, grazie alla fragranza di mirto e menta, e al gusto di sentire la mia valchiria padana cingermi i fianchi, che presi definitiva coscienza di quanto l’oggetto-scooter mi stesse cambiando la vita, mi stesse rendendo, davvero e finalmente, libero.
L’Asinara
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