Potrei saltarli, i seicento chilometri tra Legnano e Silvi Marina: imbarcarmi sul primo biplano in rotta verso Pescara e dal finestrino salutare il mare d’acciaio e carne diecimila metri sotto di me. Un’ora in aria, fresco, comodo, in pace con l’universo.
Ma è viaggiare questo?
Viaggiare è mischiarsi alla carne e all’acciaio, respirare merda e sgomitare, schiacciato contro il guardrail dai TIR bielorussi. Viaggiare è guadagnarsi la meta.
E allora Tangenziale Ovest, il trampolino che mi tuffa dal cemento milanese al verdegiallo della Val Padana. Dopo Melegnano è campagna vera: eccola, la puzza di merda rigenerante – ancora più solida inalata dallo scooter – eccoli, i cilindri di grano addormentati nei campi appena depilati. Si vede la mano dell’uomo, ma l’uomo è assente, nascosto nelle cascine.
A Fidenza, come d’abitudine, c’è coda. Centinaia di macchine mi guardano sfilare sulla corsia d’emergenza; non avessero i figli, non avessero i bagagli, non avessero il crossover da esibire, quegli uomini spenti sguscerebbero dall’abitacolo e mi implorerebbero di caricarli in sella, disposti ad andare dovunque vada io, pur di salvarsi da smog e pianti in carrozzina.
Teatro Pavarotti, Modena
Smaltita la magra soddisfazione dell’invidia altrui, rientro in carreggiata dalle parti di Parma e mi schizza di fianco lo stabilimento della Chiesi, una piccola farmaceutica cui Babbo offriva consulenza da pensionato, dopo la Bayer. Piccolo scarto dell’anima, meglio distrarsi con le targhe straniere.
Stanno tornando, gli stranieri, malgrado i tamponi e la quarantena, si va in Italia, chi vuoi che controlli… Tedeschi e Svizzeri soprattutto, molti camper, viatico per l’indipendenza, e biciclette appese sul retro. Non mancano gli eccentrici in decappottabile arancione o i parvenus scesi a sfoggiare ricchezza: tre Ferrari del Canton Ticino sfrecciano in serie sulla terza corsia e non c’è testa che non si giri.
Si girano, le teste, anche a Reggio Emilia, incuriosite dalla Stazione Mediopadana, quel bruco bianco che il talento piacione di Calatrava fa correre lungo l’Autosole. Ogni volta mi chiedo se ne avessimo davvero bisogno e se non potessimo appaltare i lavori a un connazionale, ancorché non archistar.
Altre occhiate sui lati instillano la convinzione che siamo sì popolo di poeti, santi, navigatori – e architetti – ma pure di salumieri. Da Reggio a Bologna si snoda una trafila di aziende d’insaccati, alcune note, altre meno; mi colpisce la Veroni, sotto la cui insegna campeggia “dal 1925”. Il dettaglio temporale mi obbliga a riflettere sul concetto di longevità, spesso sovrapposto al concetto di qualità: quella scritta ci vuole raccontare che, siccome il cavalier Veroni – l’avranno fatto cavaliere – e i suoi figli hanno tenuto botta per un secolo, i loro culatelli sono buoni. Come se io andassi in giro con un cartello al collo, “Andrea Negro, dal 1969”, a garanzia del mio spessore di uomo.
Fontana del Nettuno, Bologna
Abbandono le elucubrazioni gastronomico-esistenziali attratto dalle figure di uccelli dipinte sui parapetti ai bordi della strada: se decorazioni, sono piuttosto modeste; forse servono a dissuadere gli uccelli veri dallo schiantarsi sulla plastica delle protezioni, magari pensano che quel territorio sia già occupato da altri volatili. Provvidenziale si squaderna la tangenziale di Bologna, a interrompere le derive dei miei dubbi.
Stranamente non è intasata, come di norma a luglio. Però è calda, il display del Beverly segna 38°, se mi avventuro in autogrill, mi sciolgo. Tiro dritto, a Casalecchio di Reno riconosco l’ennesimo parallelepipedo gialloblu, il terzo baraccone dell’Ikea, dopo Corsico e Parma: stupefacente quanto fatturato generino quattro assi di truciolato, da montare da soli peraltro.
San Lazzaro di Savena – uno dei miei svincoli preferiti, insieme a Terre di Canossa e Val Vibrata – chiude la tangenziale bolognese e introduce la A14, l’Adriatica: nei centotredici chilometri di tratto romagnolo fino a Rimini, spariscono le città, tanto immanenti sulla A1 emiliana. Il conglomerato urbano più ampio è Forlì, come ogni paesone di provincia aggrappato alla piazza centrale; niente a che vedere con l’opulenza di Parma o Modena, per non dire dei portici e delle torri di Bologna.
Piazza Aurelio Saffi, Forlì
Sono i frutteti a dominare il paesaggio, e gli autodromi, questa è terra di costruttori e piloti, gente sanguigna, temeraria, ruvida, Benito era di qui. Nel regno della velocità, io vado piano, mi godo il sole che intanto scivola alle spalle e, con la coda dell’occhio, controllo che siano sempre lì, a destra, gli Appennini. Scuri e stondati, scorrono insieme all’autostrada, la accompagnano fino al mare.
Un cartello mi informa che a Gambettola hanno creato la Wellness Valley, sarebbero le terme, ma vuoi mettere. Poco dopo viene segnalata un’altra valle, quella del Rubicone, e mi stuzzica la tentazione di puntare il fiume, oltrepassarlo e minacciare Roma in groppa al mio cavallo a motore. Ma non ho il piglio di Giulio Cesare, il mio “alea iacta est” si è concentrato sull’apertura di un bed&breakfast, non posso che resistere alla digressione militare. Anche perché è iniziata la discesa, da Cesena la strada ha preso a inclinarsi, morbida, e ora mi rotola senza gravità verso l’Adriatico.
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