A nove anni ho visto mia madre scopare con un uomo diverso da Papà. Rientravo da scuola, avevo vomitato un paio di volte e la maestra mi aveva spedito a casa un’ora prima che finissero le lezioni. Davanti al giardino era parcheggiata la bicicletta di Mario il postino, mi sono avvicinato alla finestra della cucina e li ho visti: al di là del vetro, Mamma era sdraiata di schiena sul tavolo, la gonna a fiori alzata fino ai fianchi, Mario le stava sopra, con i pantaloni alle caviglie, muovendosi avanti e indietro senza sosta. Non capivo esattamente cosa facessero, sentivo però che c’era qualcosa di sporco, di non giusto. Sono rimasto zitto e immobile, mentre mia madre e il postino sincronizzavano i corpi, troppo impegnati a sbuffare e inarcarsi per accorgersi della mia faccia incollata alla finestra. Dopo un minuto o un giorno sono uscito dal giardino, mi sono nascosto nei cespugli di fianco alla strada e ho aspettato che Mario portasse la bicicletta lontano da casa.
Non ho parlato con nessuno di quella mattina, credo di averla sepolta in qualche remota cavità della coscienza, almeno fino a quando non ho visto Jack Nicholson e Jessica Lange replicare il copione andato in scena nella mia cucina. Lì ho ricordato e capito: Mamma e il postino stavano facendo sesso, sul tavolo, adultero. Mi sono chiesto quante volte l’avessero fatto e perché. I miei si amavano, mi portavano al mare, al cinema, la sera commentavamo il telegiornale. Mi abbracciavano spesso, mi sorridevano, a volte lo facevano anche tra di loro; mai un litigio, solidi, uniti. Però Mamma scopava con Mario.
Cosa cercava? Evasione? Mia madre era inquieta, come me. E non lavorava, aveva lasciato il conservatorio per dedicarsi a me e Corrado. Quando siamo diventati grandi abbastanza per la scuola, è rimasta sola a casa, tra padelle e lavatrici, in perenne attesa di mio padre. Papà tornava tardi dalla ferramenta, si cenava, due ore di televisione e a letto. Sabato e domenica li passava in garage ad assemblare armadietti e sedie a dondolo, mentre Mamma c’insegnava a suonare il piano. A me piaceva quello scorrere del tempo, forse a lei no. Forse avrebbe voluto lasciarci da Nonna e scappare sulle Dolomiti col marito, anziché trovare spazio in salotto alle sue pregevoli opere in faggio. Oppure suonare Chopin per lui, incrociarne lo sguardo, rapito dalle mani pallide della moglie. O magari discutere forte, di pancia, e fare l’amore per fare pace. Ma era tutto così cristallizzato, tranne Mario, evidentemente.
L’ho rivisto, Mario, a teatro, qualche mese fa. Ero con Bea e Filippo, che avrebbe preferito un cartone della Marvel a Cecov. Il postino aitante e chiassoso dei miei ricordi sedeva in quarta fila, solo, appesantito. L’ho aspettato all’uscita, sembrava contento di rivedere il figlio della Rita e conoscerne la famiglia: come stava mia madre? Mamma era morta, di cancro, l’anno prima, e le rughe di Mario si sono riempite di lacrime. Era tardi, Filippo sbadigliava, abbiamo salutato quel vecchio triste e ci siamo diretti alla macchina. Mentre attraversavo la strada, ho sentito le mani di Mario sulle spalle: Sebastiano… Sì? Niente, dovevo salutargli Papà.
Dall’incontro a teatro non passa giorno senza che pensi a Mario che mi rincorre e mi ferma: cosa voleva dirmi davvero? Che si era innamorato di Rita? Che volevano fuggire insieme? O che Rita era solo una gran scopata? È un pensiero irritante, molesto, e mi porta ogni volta alla stessa conclusione: Mario mi ha visto, alla finestra, quella mattina, per un istante ha alzato la testa dal tavolo e l’ha girata verso di me prima che scappassi. E nel cortile del teatro voleva scusarsi: dovevo perdonarlo, mia madre era infelice e lui l’amava.
Non si preoccupasse, il bambino di nove anni è cresciuto, ha una bella moglie, un figlio, è uno stimato ginecologo che suona il piano. Sto bene, Mario, devo solo ricordarmi di chiudere a chiave la porta dell’ambulatorio, a Filippo piace entrare all’improvviso e non può succedere che mi veda con la testa tra le gambe di una donna che non è sua madre.
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