Una minchiata, ops, una sciocchezza a viaggio ci scappa sempre. Il guaio è che la minc… la sciocchezza cilena arriva nel momento peggiore, alla vigilia dei due giorni più tosti, quelli della transumanza da Chaiten a Coyhaique via Futaleufù, lungo una Carretera Austral in versione “potresti non uscirne vivo”.
Provo a rappresentarvi la portata dell’ultima affermazione (magari aprite gugolmaps per capire meglio): la Carretera Austral – o Ruta 7 – fortemente voluta da Pinochet, è l’arteria principale della Patagonia settentrionale, attraversa le regioni dei laghi e dell’Aysen, 1.222 km di montagne e prati, un’infinita Valle d’Aosta sudamericana.
Opera sontuosa di viabilità, la Ruta 7, peccato che non sia stata portata a termine, enormi tratti sono ancora sterrati, impervi, soggetti a frane. L’isolamento dal resto del cosmo regna sovrano, i centri abitati distano 60-70 km l’uno dall’altro, e chiamarli centri abitati è un insulto ai veri centri abitati: per lo più sono una manciata di case disposte su pianta ortogonale, i più antropizzati – Chaiten, Puyuhuapi – con supermercato e benzinaio, gli altri orfani di qualsiasi servizio.
Direte, sei sceso laggiù per questo… claro que sì! Ma non pensavo di affrontare la Carretera con un’intossicazione in corso, frutto della minchiata di cui parlavo poc’anzi.
È andata così.
Approdato a Chaiten da Puerto Monnt, con un ritardo di tre ore causa partenza del traghetto differita ad libitum, rinuncio alla siesta in hostal e, zaino grande e sneakers in custodia per 1.000 pesos all’emporio di Alejandro, su dritta dello stesso Alejandro provo a prendere al volo l’ultimo autobus per l’omonimo vulcano, el Chaiten, di cui ho in lista la scalata. Al ritorno non ce ne saranno più, di autobus, sicché, sempre su dritta di Alejandro mi accordo via telefono con un suo amico, Miguel, perché mi venga a prendere al rientro dal sentiero, facciamo intorno alle 17.30, facciamo 20.000 pesos per il disturbo.
Aggancio l’autobus, con me ho lo zaino piccolo, una maglia tecnica di ricambio, un thermos d’acqua, cui si aggiungono due pezzi di pane più che generosamente forniti da Roberto, quarantenne genovese che mi siede accanto. È la terza volta di Roberto in Patagonia, lui sa che non si sale sulle Ande senza cibo; sa anche quanto ci vuole per la cima del Chaiten, c’è stato quattro anni fa, dice massimo un’ora e mezza – saranno più di due.
L’arrampicata comincia docile poi punta il cielo, a poco a poco la boscaglia si dirada denudando una desolazione di terra scivolosa, pietre ignee e mozziconi d’albero, vestigia dell’ultima eruzione nel 2008. Il sole si fa perfido, la liquidità nel thermos langue così prendo la geniale decisione di immergerlo in una pozza d’acqua che pare scendere dall’Olimpo tanto è limpida. Thermos riempito, mastico esausto l’ultimo quarto d’ora di sentiero fino al cono del cratere, mille metri al di sopra del Pacifico, uno spettacolo di fumarole, laghi verdi, costoni rossi di roccia lavica.
Qui incontro una famigliola di Futaleufù, padre madre e due bambini freschissimi che pare li abbia portati un elicottero. Ci scambiamo foto e grandi sorrisi finché i quattro imboccano la discesa con la disinvoltura di un giro al centro commerciale. Mentre elaboro la vergogna di sapermi fradicio e macilento laddove la truppa cilena sgambetta garrula, si avvicinano Fabian e Gabriela. Sono giovani, carini, socievoli e soprattutto alloggiano anch’essi a Chaiten: mi riaccompagnano loro all’hostal, ma non adesso, vogliono godersi ancora un po’ l’inquietudine del vulcano. Mi sta bene, sono pur sempre una ventina di euro risparmiati. Tocca avvisare Miguel però, e ovviamente il cellulare quassù non prende. Nessun problema, posso usare quello di Fabian, e siamo a due favori che gli devo.
Disdetto l’appuntamento col mio tassista personale, dal quale mi sarei aspettato una ramanzina in spagnolo e che invece ha accettato di buon grado il mancato incasso, bighellono in vetta altri cinque minuti poi scendo. Il patto con la coppia cilena è che li aspetto in fondo al sentiero, se non mi trovano significa che qualche anima pia mi ha dato uno strappo.
Guado il fiume già guadato all’andata – el rio Chaiten, cos’altro? – e attingo nuova acqua per il thermos, perché no?, anche questa pare trasparente. Mezz’ora dopo sono in strada col pollice bene in vista; mi carica un’altra coppia cilena che però si ferma lì vicino, alla spiaggia di Santa Barbara, vabbè, meglio che attendere Fabian e Gabriela sine die.
Vengo scaricato all’incrocio per Santa Barbara dove, praticamente subito, mi affianca un pickup con stipati dentro un uomo, una donna e una bambina. La donna capisce che sono italiano e mi chiede se sono io l’Andrea che dormirà da loro stanotte. Io le chiedo se è lei la Isabel che mi ospiterà stanotte: quando ci confermiamo le rispettive identità sono risate di gusto, maddai, faccio l’autostop e tra tutte le auto che passano – okay, una ogni eruzione del vulcano – a fermarsi sono proprio i proprietari dell’hostal di Chaiten prenotato mesi prima… questa è serendipità!
Alle sette di sera mi accampo da Isabel e Pablo, un’ora più tardi trovo un tavolo al ristorante El Volcan – e come sennò.
Sto bene, ho scalato, ho una camera, una porzione abnorme di salmone davanti e una coppia di Maastricht con cui chiacchierare. L’incantesimo dura fino alle cinque di mattina, allorché il salmone sceglie di uscire dalla parte sbagliata del corpo, insomma, avete capito, vomito l’anima, e la vomiterò per altri tre giorni: che siano le chiare fresche dolci acque di sorgente patagonica, così astutamente e copiosamente spillate nell’organismo?
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