Negli anni Novanta Arese era tutta un fermento e il tennis maramaldeggiava. Oltre ai cinque dirigibili in terra rossa del c.c.s.a. – il centro sportivo comunale – si contavano una dozzina di campi in cemento, tanti quanti i residence in paese, e altrettanti tornei non agonistici. Il più quotato era il Trofeo Ferlenghi. Lo giocai un paio di volte prima di trionfare nel 1993; quell’anno snocciolai una serie di prestazioni mozzafiato, col mio stile sghembo spezzai le reni a svariati peones della racchetta fino alla finale, in cui ridussi all’impotenza il potente e solidissimo Baldini, spauracchio di ogni tennista locale. Fu il mio successo più sfolgorante, l’unico della carriera.
Ma non fu al Ferlenghi che mostrai il miglior tennis. Successe un paio di anni fa, in un torneo di terza categoria a Fagnano, Padania centrale. Forte di una classifica 4.2, al primo turno scherzai un giovanottone di poco movimento e ancor meno talento, al secondo un ometto di mezza età, autodidatta e perciò rognosissimo.
Al turno successivo mi capita un quindicenne con la faccia da schiaffi, atteggiato a campione in erba. Mi dà subito sui nervi, poi ricordo che in tanti avrebbero voluto prendere a schiaffi me, a quindici anni. Il bulletto si è portato dietro l’intera famiglia: mamma, papà e due sorelle che ululano a ogni suo punto, dunque ululano spesso; ho tredici anni nel cuore ma quarantotto nella testa, c’è solo da tenere botta e remare.
Dopo quattro minuti di match, la truppa decide di applaudire un mio drittaccio in rete, un colpo cercato male ed eseguito peggio, un fottuto errore, insomma. Davanti a quell’oltraggio mi fermo, mi avvicino alla falange armata, la guardo come il Clint Eastwood della 44 Magnum e prendo ad arringarla su temi inutili come sportività e correttezza. Devo risultare convincente, perché all’errore successivo – e ai tanti che seguiranno – la compagnia resta muta ancorché implosa di gioia. Una piccola, insperata vittoria.
Per venti minuti rimango in balìa dei cannoneggiamenti del lattante. Sull’1-5, però, produco un rovescio vincente di rara bellezza, almeno per me. E riguardo gli hooligans col ghigno di Callaghan, applaudendomi da solo tanto a lungo che alla fine devono applaudirmi pure loro. Sembro Robertina Vinci a New York quando, dopo aver azzannato un punto inverosimile, urla al pubblico yankee di applaudire anche lei – cazzo! – anche se sta facendo piangere la dolce “Seriina”.
A un passo dal vidimare il primo set, il teppistello mi rispedisce indietro una prima palla di servizio andata lunga, violando l’aurea regola non scritta del tennis amatoriale, vietato distrarre il battitore prima che serva la seconda palla. Nonostante la stizza, non cedo alla tentazione di un’altra paternale; piazzo un kick profondo e chiudo una facile volée sulla sua risposta alta e molle. Ma sono in modalità Eastwood e al cambio di campo ricordo la norma al furfantello, il quale, senza guardarmi, borbotta a denti stretti che lui fa quel cazzo che gli pare. Arrivo a un passo dal malmenarlo, mi trattengo solo pensando alla mia fedina penale ancora miracolosamente immacolata.
Considero, tuttavia, l’ipotesi abbandono: giocare a tennis mi deve divertire e non mi sto divertendo. Sotto le granate nemiche si è pure indurito il polpaccio sinistro, rischio una contrattura e una sonora legnata, e neanche perdere mi diverte molto. Resisto. Magari il muscolo si scioglie, magari il monello se la fa sotto. Magari mi connetto telepaticamente con Roger e comincio a giocare sulle righe. Non accade nulla di ciò, e il primo set vola via 6-2 per il moccioso. Almeno la famigliola s’è chetata e anche lui pare meno selvatico.
Ora sono al bivio: il polpaccio non si scioglie, ma neanche si raggruma definitivamente costringendomi alla resa. In questi frangenti dovrebbe imporsi la testa del quasi cinquantenne. Dovrei maturare la decisione adulta di ritirarmi, prima di menomare il fisico anch’esso quasi cinquantenne, non avendo, peraltro, alcuna chance di vittoria in tale precarietà di condizioni. Ma l’avete mai visto Clint che si ritira?
Prevale il cuore adolescente e scelgo di giocare il secondo set, che se poi, grazie a incommensurabili congiunture astrali, dovessi vincerlo, ce ne sarebbe pure un terzo: così mi azzoppo del tutto e mi abbattono come un ronzino decrepito. Sfoggio ridicoli esercizi di stretching e ciondolo alla Monfils, enfatizzando la zoppia; chissà, il marmocchio potrebbe farsi condizionare dall’infortunio e smettere di lanciare pallate col bazooka che gli hanno montato al posto del braccio: tattiche patetiche allo scopo di ritardare la bandiera bianca.
Il polpaccio tiene e il birbante un po’ molla, convinto che il vecchio abbia i minuti contati, mentre qualcuno della famiglia tira fuori il defibrillatore con malcelato sadismo. Il vecchio non schiatta, anzi: gioco il miglior tennis di sempre per cinque, fiabeschi games, evitando di inseguire le sassate del bazooka e precipitandomi a rete appena posso, sul mio servizio e sulla seconda del teppistello. Inanello una serie di volées e smash che neanche McEnroe nell’84 a Parigi. Parziale: 4-1 a favore del nonno.
Poi appoggio la gamba con violenza sulla terra più che battuta e il polpaccio mi riporta per la collottola alla senilità, contraendosi duro a un soffio dallo stiramento. In questo stato d’invalidità forse anche Clint lascerebbe. Ma la soddisfazione al moccioso di pavoneggiarsi a scuola con gli altri mocciosi – ho giocato contro un vecchio e l’ho schiantato tanto che s’è dovuto ritirare – quella non gliela voglio dare. Piuttosto me la faccio amputare, la zampa fedifraga.
Gioco da fermo e, non avendo il braccio di Del Potro, perdo malamente 4-6. Meglio così, perché al terzo set mi avrebbero portato via in barella. Alla stretta di mano dico al ragazzo che è bravo, ma dovrebbe stare più tranquillo. Lui mi dà le spalle e, probabilmente, mi manda affanculo. L’avrei fatto anch’io.
La sera concimo il polpaccio con una badilata di ghiaccio; mi dorrà tutta la settimana successiva, inevitabile l’astinenza dai campi: vedi a fare Clint Eastwood! Mentre fascio l’arto mancino, mi ritrovo a pensare che, se per me è e sarà sempre puro divertimento, per il quindicenne e la sua curva il tennis potrebbe trasformarsi nella più frustrante iattura della vita, qualora, in seguito a imprevedibili alchimie del fato, lui non diventasse il campione che credono sia.
Per scacciare i brutti pensieri, accendo la tivvù, giro su Supertennis e mi guardo l’esaltante Schiavone-Stosur di Parigi 2010.
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