Succede che lunedì 28 agosto Easy Jet ci cancella il volo dall’Inghilterra a Milano, un piccolo, noioso fastidio in coda a un esaltante weekend di musica irlandese al Pairc Festival di Birmingham. Ce ne accorgiamo a pochi metri dal gate, quando la macchinetta che scansiona le carte d’imbarco non legge le nostre e l’omino di supporto ci rappresenta assai cortesemente il timore che il volo sia stato annullato, I’m afraid that your flight has been cancelled. La sua paura si materializza prima sullo schermo delle departures, poi nella mail che, a un’ora dalla partenza, Easy Jet si degna di mandarmi: è ufficiale, il Birmingham-Malpensa delle 19.35 è soppresso, parte l’odissea del rientro in Italia.
Primo approdo, il banco Easy Jet dell’aeroporto di Birmingham.
In realtà non esiste un banco Easy Jet, esiste un banco della Swissport deputato a gestire i passeggeri Easy Jet; lo occupa un Charlie Brown brufoloso sulla cui scrivania campeggia un tapperware gonfio di maccheroni freddi preparati da mammà. Insieme a noi un saronnese anche più incazzato, lui è al secondo volo cancellato in due giorni, prima Manchester poi Birmingham.
Forti dell’essere diventati trio, esortiamo Charlie Brown a trovarci un mezzo che ci riporti in Europa, foss’anche una combo carrozza su Dover-pedalò su Calais via Manica: niente, fino a mercoledì, vale a dire tra due giorni, non c’è aereo Easy Jet con posti disponibili, neanche appollaiati sull’ala. Forse intenerito dalle lacrime in precario equilibrio sulle palpebre di Cristiana, Charlie si offre di pagarci lui – cioè non lui personalmente, la Swissport – le due notti e i due transfer, da Birmingham a Londra, da Londra a Gatwick, gia ché mercoledì si partirebbe da Gatwick, a Birmingham il traffico aereo riprenderà a Natale… grazie, amico Charlie Brown, lo sapevo che eri uomo buono. A noi spetta soltanto di cambiare il volo sul sito Easy Jet seguendo la procedura prevista per le cancellazioni.
Fatto. Ora Charlie ci procura cocchio e suite regale a Gatwick.
Un attimo, c’è da ottenere l’ok del supervisor. Charlie scompare per dieci sanguinosi minuti, al rientro da ciò che immagino un accesissimo confronto col capo, il ragazzo dalla pelle butterata è desolato: non è possibile coprire anticipatamente le spese, sta a noi pagare alberghi e trasferimenti per poi chiedere il rimborso a Easy Jet – che sia desolato bisogna credergli sulla parola, perché la faccia facciosa di Charlie non esprime la benché minima desolazione.
Secondo approdo, l’Ibis dell’aeroporto di Birmingham.
Alle otto di sera è sciocco muoversi verso Londra, sicché ripariamo all’Ibis locale; al check in c’è Mister Bean, il quale conferma di avere camere e, senza chiederci né nome né documenti, ci consegna le chiavi della 105. Tanta fretta si spiega col suo doppio incarico, ora receptionist, più tardi barman al ristorante dell’albergo, domani gli faranno pure rifare le stanze. Per noi invece doccia, cena, nanna.
La mattina dopo – martedì 29 – ci ingolfiamo della colazione inclusa nel prezzo e saccheggiamo il saccheggiabile: l’idea è prendere il 10.16 della North Western Railways per Londra, bighellonare per la capitale un cinque, sei ore – Trafalgar, Westminster, picnic sul Tamigi col bottino della colazione, Big Ben, Buchingham Palace – e partire per Gatwick da Victoria station verso le 19. Resta solo da riconsegnare le chiavi e pagare, ma la reception dell’hotel è deserta. Ora: Mister Bean non ci ha registrato, siamo fantasmi senza identità, potremmo uscire e vantarci sui social di aver alloggiato gratis all’Ibis Styles di Birmingham Airport, stimatissimi pronipoti di Al Capone e Lucky Luciano. Sennonché, oltre che ostaggio di una coscienza contraria a ogni forma di furbizia, all’estero tendo a sconfessare l’immagine dell’italiano mascalzone e mantengo una condotta di irreprensibile moralità.
Dunque aspettiamo, compare una delle tante donne nere di questa parte d’Inghilterra: ovviamente non risultiamo a sistema – saranno cazzi per Mister Bean – e neppure si sa quanto dobbiamo pagare. Anche qui, potrei ribassarci la tariffa di una ventina di sterline, macché, rivelo l’importo corretto e striscio la visa.
Terzo approdo, Londra.
Trafalgar, Westminster, picnic sul Tamigi con il bottino della colazione, Big Ben, Buchingham Palace, Victoria station.
Quarto approdo, il Premier Inn dell’aeroporto di Gatwick.
Qui risultiamo, nel senso che ho prenotato ieri sera dall’Ibis, metti che era sold out e ci toccava dormire in una mangiatoia a ridosso delle piste. Doccia, cena, nanna. E sveglia puntata alle 6, ché il volo di domattina è fissato per le 8 e se lo perdiamo si torna a casa a Pasqua.
Quinto approdo, il gate 45A dell’aeroporto di Gatwick, la tappa più tosta, quella del contenimento della collera.
Vi ho detto che saremmo partiti da Gatwick per Milano ma non vi ho detto lungo quale percorso: ebbene, l’unico modo per rientrare dal Regno Unito prima di venerdì 1° settembre – giorno in cui miracolosamente riprenderanno i voli Easy Jet diretti sull’Italia – l’unico modo è passare da Creta, sì, l’isola greca di fronte alla Libia, quella di Minosse, Teseo, il labirinto, il minotauro, le ali di Icaro che si sciolgono, quella davvero sfiorata da Ulisse nel rincorrere Itaca. Il tragicomico tragitto nel dettaglio: ore 8, Gatwick-aeroporto di Chania; ore 13.30, arrivo in Grecia (tre ore e mezza di volo più due di fuso orario); cinque ore di scalo in aeroporto; ore 18.35, Chania-Malpensa, atterraggio definitivo in Padania alle 20.35 ora italica. Praticamente tutto mercoledì 30 sospesi tra i cieli e gli scali d’Europa, con lo spauracchio di ulteriori cancellazioni.
La giornata comincia discretamente, nonostante il risveglio da fornai siamo abbastanza lucidi da imbroccare la temibile sequenza camminata dall’albergo all’aeroporto/individuazione del gate/superamento del metal detector. Di buono c’è che siamo sollevati dall’imbarcare alcunché già che viaggiamo con due zaini come i giovanotti dell’interrail, e che il volo delle 8 è confermato (partirà alle 10 ma non si può pretendere troppo dalla buona sorte).
Prima di raggiungere il gate 105 ci aggredisce l’idea malsana, colpevolmente malsana, prevedibilmente malsana, di visitare il gate 45A da dove risulta in partenza il volo delle 7 dritto dritto per Milano – magari qualcuno ha rinunciato, magari qualcuno si è sentito male nella notte, magari qualcuno è mancato all’affetto dei propri cari e si sono liberati due posti per una coppia di vecchi ragazzi innamorati dei Waterboys.
Arriviamo che stanno imbarcando, ci intrufoliamo a forza nella fila e attiriamo l’attenzione dell’unico stipendiato Easy Jet presente. Al quinto excuse me sir, l’uomo stacca gli occhi dai passaporti che gli sfilano davanti e ci regala dieci secondi di ascolto distratto. Condenso al massimo la vicenda – volo cancellato, due giorni di nomadismo inglese, rientro comodissimo via Creta – scongiurandolo di sistemarci in qualche modo sul suo aereo. Pare che due posti liberi ci siano, forse davvero è morto qualcuno, vabbè, com’era? ah sì, mors tua vita mea. Problemino però, abbiamo la carta d’imbarco per un altro volo (eccerto, genio, ci mandate in Grecia!), il trasloco non si può fare.
Cioè, mi dici che c’è posto a bordo ma non possiamo salire per un pezzo di carta ristampabile in un minuto coi dettagli della nuova tratta? E dopo che la tua integerrima compagnia ci ha annullato il volo dicendocelo un’ora prima e adesso ci spedisce praticamente in Africa?
Chi mi conosce sa che non mi riesce semplicissimo gestire l’ira quando sale la frustrazione; anche se da anni sto sviluppando una sorta di accettazione zen degli innumerevoli fracassamenti di testicoli omaggiati quotidianamente dalla vita, rimanere calmo non rientra tra le mie infinite risorse morali, soprattutto quando viene vilipesa l’innata e un po’ patetica fiducia che ripongo negli altri, specie negli altri preposti se non obbligati ad aiutarmi.
Ecco, lo stipendiato Easy Jet dovrebbe aiutarmi e invece ha ripreso a vidimare i passaporti dei privilegiati che voleranno a Milano senza transitare dalla Patagonia. Di norma qui scatta la trappola emotiva, perdo l’aplomb, il tono di voce si alza, mi si incendia il viso; stavolta mi controllo, a fatica ma mi controllo. Agganciamo un altro addetto Easy Jet intento ad aprire il gate di fianco: è una donna, capisce il nostro disagio ma non ha il potere di avviare una procedura d’eccezione, sì, potrebbe contattare il responsabile, disperso chissà dove in Britannia, purtroppo però non ha un telefono vicino, no, quello bianco sulla scrivania non è abilitato alle chiamate in uscita.
Dietro ennesima supplica di Cristiana, cui ho delegato la conduzione del dialogo considerata la mia ira montante, la donna consulta l’uomo del gate 45A, il nostro uomo. No seats available, lo dicono quasi in coro. Come scusa? Cinque minuti fa c’era disponibilità e ora no? C’avete pure chiesto di mostrarvi le carte d’imbarco e ora ci rimbalzate come clandestini messicani al confine col Texas, solo perché non c’avete voglia di farne due nuove? Beh, potete anche andarvene affanculo, ma di cuore proprio!
Il fuck you mi esce particolarmente bene, rotondo, sonoro, malgrado ciò non suscita reazioni scomposte nei due parassiti d’arancione vestiti, e neanche gli osanna dei passeggeri presenti – che gliene frega a loro delle nostre peregrinazioni tra midlands, Egeo e Pianura Padana: cazzo, manco la soddisfazione di un’uscita in grande stile dal palcoscenico del gate 45A.
Sesto approdo, il gate 105 dell’aeroporto di Gatwick.
Lo show si trasferisce al gate per Creta, quello giusto, quello in cui non siamo abusivi. Galleggio in una bolla di risentimento, verso Easy Jet, verso il sistema aereo inglese, la guida a destra, la famiglia reale, gli autobus a due piani e il porridge perfino. Dovrei starmene zittino e invece mi sento domandare alla guardiana del gate se per caso, ma per caso eh, fosse così cortese da convertirci lei le carte d’imbarco visto che il gentilissimo collega del 45A ci ha respinto con perdite.
It doesn’t work that way: certo che non funziona così, lo so benissimo che non funziona così, ma non funziona neanche che ci cancelliate il volo, ci costringiate ad attraversare in treno mezza Inghilterra e in aereo mezza Europa per rincasare a Legnano con due giorni di ritardo sul programma. Ergo, anomalia per anomalia, ora un modo di farci salire su quel fottuto aereo per Malpensa lo trovate!
Nelle mie intenzioni doveva suonare come una blanda sollecitazione, ma temo di averla detta male, temo che la bolla di risentimento sia esplosa in ogni direzione a mo’ di mina antiuomo e che una scheggia impazzita abbia centrato la guardiana, ora pronta alla rappresaglia: se aggiungo una parola, una sola parola, chiama la sicurezza e non partiamo neanche per Creta! Allarme, achtung, defcon 5, meglio silenziarmi, meglio non rovesciarle addosso ogni insulto conosciuto nella lingua barbara che parlano quassù, e ne conosco tanti. Cioè, fosse per me, mi espellessero pure dal gate e dall’intero Commonwealth, mi imbarco per Dublino e li lascio ubriacarsi ogni sera al pub – vabbè, questo lo fanno anche in Irlanda. È che Cristiana è stremata, non ha vestiti puliti e ha bisogno del suo bagno.
Mi cucio la bocca come una maschera di Halloween, allungando passaporto e carta d’imbarco alla guardiana nazista, poi mi allontano prima che saltino i punti e dal vaso di Pandora del mio rancore, eroicamente tappato da ben venti secondi, guizzino fuori improperi terrificanti, irripetibili, da chiedere l’intervento di Scotland Yard, altro che security.
Settimo approdo, l’aeroporto di Chania.
Sbollita l’incazzatura, con un minuscolo conato di orgoglio per l’autocensura al gate londinese che mi ha evitato la carcerazione nelle galere britanniche, smaltisco le tre ore e mezza di volo dal Mare del Nord al Mediterraneo scrivendo dell’odissea in corso. Ogni tanto alzo la testa dal quaderno e scruto l’orizzonte oltre l’oblò: cielo e, più sotto, nuvole. Più sotto, immagino, terre emerse, chessò Francia, Germania. In realtà ora stiamo sorvolando il confine tra Italia e Svizzera, lo comunica il capitano via altoparlante: ecco, paracadutateci qui, con un po’ di fortuna il vento ci spinge su Como, o magari oltre, magari ci annodiamo direttamente al campanile di San Magno in Legnano, come il soldato americano alla cattedrale di Sainte Mère Eglise durante lo sbarco in Normandia.
Mentre provo a ricordarne il nome, le nuvole si diradano e come zattere scorrono le isole croate, poi il Peloponneso, poi un campo di pale eoliche immerse nell’acqua che paiono le croci di un cimitero militare, finché non appare una grossa zolla di terra rosso-bruna. Lo sbiadito ricordo visivo del viaggio greco del 1999 è suffragato da un altro messaggio gracchiante del capitano: stiamo per atterrare a Creta. Lo confesso, una volta rassegnato al grottesco scalo ellenico, ho fatto due conti veloci: si arriva alle 13.30, si riparte per Milano alle 18.35, un’ora per un bagnetto nell’Egeo ci sarebbe. Ho pure consultato Google Maps, la sabbia più vicina dista solo venti minuti a piedi dall’aeroporto, cinque in taxi. Il costumino non ce l’abbiamo, mica te lo porti a Birmingham, ma chissene, mutanda e via, anzi nudo, come il discobolo di Mirone, a proposito di ellenismo: cazzo, almeno ottimizziamo la sosta forzata.
Un paio di ostacoli si frappongono ahimé tra noi e il mare, uno aggirabile, l’altro no. Il primo: l’aereo atterra a Creta con due ore di ritardo, come detto accumulate in partenza da Gatwick; poco male, resta comunque il tempo per una fuitina sulla costa. Il secondo: Cristiana ha una decina di organi interni che le fanno male, un principio di nausea e l’umore di Bridget Jones davanti alla bilancia, a insistere per il bagnetto insieme rischio il divorzio con addebito della colpa. Potrei andarci da solo, a Paralìa, la spiaggetta salvifica a un tiro di fionda, e Cris mi incoraggia pure, sennonché ho un rigurgito di etica coniugale: uno dei tre dogmi intoccabili del matrimonio prescrive di non lasciare mai sola una moglie in precario stato psicofisico (gli altri due impongono di rimuovere ogni traccia di urina dalla tazza del cesso e non fiatare se la dolce metà passa l’aspirapolvere proprio mentre stai scrivendo il romanzo della vita).
Dunque rinuncio al tuffo, un giretto fuori dalla sala arrivi però me lo faccio, dai, giusto per godermi quel cielo azzurrissimo ammirato dall’aereo e che ora mi sboccia sopra la testa; mezz’oretta, non un secondo di più, percorro la strada in uscita dall’aeroporto, assorbo il caldo e l’aria pulita dell’isola, magari mi faccio un souvlaki a un baracchino, due foto e ritorno, in tempo per mantenere l’allure del marito perfetto. Incassato il nulla osta di Cristiana, che ha dipinto sul volto il senso di colpa di quando limita suo malgrado le mie attività ludiche, mi incammino, il vento tiepido di Creta a carezzarmi le guance. La strada è un rettilineo brullo costellato di noleggi auto e distributori, nessun bar, nessun baracchino, mi accontento delle casette bianche in lontananza sotto le colline rosso-brune, cartolina sufficientemente iconografica di una Creta da rivedere al più presto.
Al rientro in aeroporto Cristiana sta meglio, la nausea è passata e l’umore sta virando verso l’insperato sollievo di chi stasera, forse, dormirà nel proprio letto. Prima di imbarcarci mangio veloce una moussaka dal chiosco della sala partenze, è appena decente ma per qualche ora porterò nello stomaco un pezzetto di Grecia.
Ottavo approdo, l’ultimo, il Terminal 2 dell’aeroporto di Malpensa.
Sul volo da Creta io e Cris siamo divisi, di fianco ho una coppia più o meno coetanea, guarda le coincidenze di Arese, dove ho trascorso i primi trentasei anni lombardi. A loro Easy Jet non ha cancellato voli, tornano in Italia dopo una rilassante settimana di sole certificata dal sorriso stampato sulla faccia. È tale la loro serenità che ascoltano con interesse l’intero racconto della nostra odissea aerea, odissea di cui snocciolo ogni dettaglio, anche il più ininfluente, animato dall’urgenza di esorcizzare una volta per tutte il disagio che ne è conseguito.
L’interesse della coppia aresina, in particolare dell’uomo, che ha la sventura di sedermi accanto, rimane costante anche quando passo ad argomenti sì più ameni ma forse meno coinvolgenti rispetto ai disservizi di una compagnia low cost – chi non ha avuto imprevisti viaggiando in aereo? Tant’è, ormai ho stornato la conversazione – in realtà un monologo, il mio – sui viaggi che ho fatto e che farò, citando luoghi, personaggi, emozioni, in un crescendo romanzesco degno di Chatwin. L’uomo, Fabio, pare davvero partecipe, il che mi consola, mi gratifica, mi risarcisce quasi della frustrazione degli ultimi giorni. Ogni tanto prendo fiato e Fabio inserisce brevi osservazioni e narrazioni personali, poi torna ad ascoltarmi attento, in grembo il libro giallo che avrebbe potuto leggere se solo gli fosse capitato un vicino di posto meno invadente.
Al termine della terza ora di volo, quando anche gli esilaranti aneddoti da globetrotter vanno esaurendosi, appare la sagoma piatta, brulicante, adorata dell’Altomilanese, la fetta di Pianura Padana tra il capoluogo lombardo e il Varesotto, la mia Itaca. Manca davvero poco a rimettere i piedi sul suolo patrio, raggruppiamo zaini, borse, giacche, scambiamo il cellulare con Fabio – io quest’uomo, questo santo, lo voglio come amico fraterno – e aspettiamo che l’uccellaccio d’acciaio tocchi terra, nel cuore la musica del Pairc Festival, negli occhi le meraviglie di Londra, nel fegato l’indifferenza malevola degli ominidi Easy Jet, con cui non volerò più, fino alla prossima volta.
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