Oggi nevica e bene. La neve il 28 dicembre è un regalo postumo, raro al confronto con gli anni docili della mia infanzia. Lì nevicava ogni Natale, almeno così mi piace raccontarmi. Arese si addormentava alla vigilia e si risvegliava la mattina dopo coperta di panna, il nostro abete gonfio di bianco, le palle e le ghirlande appena visibili.

Ma a Natale, salvo imprevisti, i Negro avevano già lasciato Arese, per L’Aquila prima e Roma poi, la tournée degli affetti cui l’esilio lombardo e ribelle di Mamma ci condannava senza appello: lei aveva abbandonato madre e fratello in Abruzzo, suoceri e amiche nella capitale, lei doveva muovere il culo e tornare per le feste. E noi dietro, lungo i 600 km e le troppe ore di dorsale appenninica che ci dividevano dai parenti.

A L’Aquila nevicava anche di più, col Gran Sasso a dirigere il traffico. Ci si accampava da nonna Licia, litigando col freddo; venivo depositato come Gesù Bambino dentro la scomodità della poltrona letto bordeaux spiegata nella saletta tivvù, la giuntura centrale del materasso gelido a torturarmi la schiena in formazione. L’ostilità del clima era stemperata dal furore dei cugini, anzi i “cuginetti”, tre diavoli sovversivi, la cui indisciplina era per me e Gianluca fonte di stordito, ininterrotto spasso, per Mamma motivo di legittima preoccupazione: in pochi giorni l’anarchia dei nipoti avrebbe potuto sgretolare anni di quotidiano lavoro nell’educare i figli al rispetto delle regole domestiche.

I cuginetti non trovavano requie, era un continuo correre urlanti per i corridoi della reggia di zio Luciano. Privi di un regime alimentare, si nutrivano di qualsiasi cosa assecondando la fame, fossero le cinque del pomeriggio o le tre di notte; sempre approssimativi nel vestire, sempre sudaticci e scapigliati. Zia Amalia provava a tamponarne gli ardori, ma si arrendeva quasi subito, impotente di fronte a tanta sinergia distruttiva: uno si poteva controllare, due si potevano gestire, con tre black block in casa si alzava bandiera bianca. Io e Gianluca andavamo a rimorchio, sovraeccitati da quella bolla dissidente, irripetibile tra le nebbie del Nord. Con gli anni dell’adolescenza, l’unità esplosiva dei cugini si sarebbe disgregata in tre universi ben distinti, ma ugualmente suggestivi: Mario ci avrebbe ammaliato coi suoi fumetti erotici, Alberto depistato con le fanzine di metallo pesante, Carlo confuso con ardite teorie fisico-quantistiche.

L’apice dei giorni aquilani, il momento che aspettavo da un anno, era la serata giochi della vigilia: nei mesi precedenti raccoglievo monete da cento Lire in un salvadanaio con la faccia di zio Paperone, capitale prezioso per accaparrarmi il maggior numero di cartelle della tombola e forzare l’asta al Mercante in fiera. Intorno al tavolo del soggiorno di nonna Licia andava in scena una commedia esilarante e rivelatrice, la personalità di ognuno ignuda di fronte alle irresistibili tentazioni dell’azzardo: c’era chi fremeva all’uscita della mano dal sacchetto dei numeri, chi si accapigliava per la Paradisea o il Lattante, chi fingeva annoiata superiorità ma ogni minuto chiedeva se fosse uscito il 46. Si chiudeva sempre con un paio di giri a Sette e mezzo – lo Chemin de fer proletario – e lì sbancavo, perché contavo le carte e puntavo forte, dodicenne dalla memoria fresca e prensile. Tra le formule indimenticabili, il grido isterico del cugino Carlo all’apparizione del Re di denari e di una figura: «SETTE E MEZZO LEGITTIMO REALE!».

A corroborare gli animi esacerbati dal gioco, nonna Licia e zia Amalia accomodavano al centro del tavolo una messe di dolci, i consueti natalizi cui si aggiungevano infide leccornie locali: sento ancora sulla lingua la morbidezza del torrone al cioccolato delle sorelle Nurzia di Bazzano, la vaporosità gialla del Parrozzo, originario di Pescara ma adottato anche dagli aquilani; la scivolosità vagamente speziata del Panforte, direttamente da Siena, in barba al campanilismo gastronomico.

Il giorno dopo non ci si poteva sottrarre alla messa di Natale in Santa Maria Paganica, la parrocchia di Nonna, pena la scomunica a vita. Una L’Aquila artica accompagnava il proprio popolo fin dentro le cappelle di una chiesa sobria e fragile, che il terremoto avrebbe scoperchiato come una scatola di cartone. Omelia, comunione e salamelecchi d’obbligo alle amiche di Nonna, ma quanto sei cresciuto! Somigli tutto a don Mario – mio nonno – e ritualità simili, mentre le mie gambette puberali s’irrigidivano per il gelo.

A Santo Stefano il calendario delle visite ci traslocava a casa di zia Maria, sorella di nonna Licia. Mamma le era affezionatissima, una giovane Maria aveva badato a lei e a Zio durante la guerra, quando i Nonni erano scappati ad Albano Laziale e per qualche mese le avevano affidato una Laura mocciosa e un Luciano già senziente. Zia Maria era un tornado, gli occhi azzurri, frequenti negli abruzzesi di terra, luccicavano di fervore e sollecitudine; le sue ferratelle si replicavano all’infinito, una cascata di miele, anice, burro, uova, simili a gauffres ma molto più gustose. Soddisfatto il palato, Maria Cristina, nipote di Zia, ci deliziava col suo talentuoso violoncello: in quella casa tutto sapeva di buono.

Il 27 si grufolavano gli avanzi dei fasti natalizi, ci si arruffava a Subbuteo nella tavernetta dei cugini e si ossequiava qualche parente minore, aspettando malinconici e impazienti la partenza per Roma del 28. Mamma applicava una salomonica parità di trattamento: cinque giorni da nonna Licia – 23/28 – e cinque giorni da nonna Elena – 28/2. Con l’età, avrei scoperto il lirismo aspro dei massicci e delle vallate che uniscono l’Abruzzo all’Urbe, all’epoca quell’ora di Fiat 132 o Lancia Thema mi pareva sciatta ed eterna, tanto vive erano la nostalgia dell’affettuosa frenesia aquilana appena salutata e la trepidazione per l’imminente abbraccio della mia città natìa.

Roma. Solenne, ampia, stanca; come la casa di nonna Elena, signorile, quasi nobiliare, enorme per due persone sole. L’immenso corridoio, che collegava l’atrio alla camera dove alloggiavamo, ne certificava la grandiosità: venti metri di vasi cinesi, cimeli di famiglia, stampe di uccelli d’acqua dolce; lastricati di marmo ocra e sovrastati da stucchi rococò al soffitto, quattro metri più su: incamminarsi lungo il corridoio era come visitare un museo di provincia.

Il resto della casa risentiva della salute precaria dei Nonni. Se a L’Aquila nonna Licia, incurante dell’angina pectoris, strofinava ogni pertugio di casa saettando l’elasticità delle gambe e l’integrità dei sensi, a Roma il glaucoma e la stazza di nonna Elena consegnavano la magione patrizia a un’entropia autogestita che imperlava gli oggetti di polvere e abbandono. Mamma si affannava a rendere l’atmosfera più ospitale, ma la metratura era troppa e il tempo troppo poco.

A me piacevano quegli spazi vasti, impregnati di antico prestigio e incustoditi, mi concedevano una libertà di movimento e sabotaggio impensabile nel fortino abruzzese. Svincolato dallo sguardo opaco e distratto di nonna Elena, nel corridoio romano reinventavo la fascia laterale di San Siro, poi setacciavo cassapanche e trumeaux a caccia di cianfrusaglie ottocentesche, poi penzolavo a trenta metri d’altezza sul terrazzino obliquo e malfermo della nostra camera, dominus di una piazza Bologna brulicante di pacchetti e luminarie.

La famiglia Negro era asserragliata in uno stanzone spoglio, sotto strati di coperte: Roma ha fama di città mite, perciò a dicembre, salvo eccezionali gelate, il riscaldamento soffia al minimo, consentendo al modesto rigore invernale di penetrare i muri e avvolgere gli inquilini, come un boa dei ghiacci. Al freddo si aggiungeva la psicosi da terremoto incombente al passaggio del 310, del 12, del 28 barrato, gli autobus di piazza Bologna: il pavimento tremava, i vetri tintinnavano e, soprattutto di notte, il palazzo dei Nonni sembrava scollarsi dalle fondamenta.

Il tempo nella casa romana scorreva lento, ravvivato dalle mie ricerche archeologiche e dalle scaramucce dei Nonni. Nonna Elena dispensava un’autorità bonaria che il nervosismo suddito di nonno Giovanni contrappuntava con una gestualità insofferente, rappresentata da un rapido movimento dal basso verso l’alto dell’avambraccio destro e da un sommesso «Ma va’ al diavolo!»; il tutto, continuandosi a chiamare Elenuccia e Giovannino, dopo quarant’anni di convivenza: erano la donna e l’uomo più buoni e innamorati che abbia mai conosciuto.

Il soggiorno a Roma presentava tre tappe obbligate. Un’altra zia Maria ci aspettava ogni anno in via Forlì per soffocarci di baci: era la sorella di Nonno, donna indipendente ed eccentrica, mai sposata, pittrice decadente dal discreto successo negli anni Sessanta. Oggi quattro dei suoi quadri impreziosiscono le pareti della mia casa al lago, coi loro colori annacquati e le cornici improbabili. Zia Maria amava dipingere personaggi del circo, pagliacci, domatori, ballerine, circondati da un’aura di pallida melanconia; la sua opera più struggente ritrae un trapezista caduto, portato a braccia fuori dal tendone da due clown. Ma Zia era anche affascinata dalla propria città, i cui scorci barocchi e latini brillavano in molti altri quadri, trasformando il transito da una stanza all’altra di casa sua in una passeggiata en plein air per Roma.

Il 29 o il 30 si andava dagli Apollonio nei pressi di viale Libia. Mamma e Daniela Apollonio erano amiche dai tempi della laurea in Farmacia, quelle amicizie granitiche che sopravvivono al tempo e alla distanza. Daniela aveva tre figlie femmine, tutte belle, tutte solari, tutte sportive, due delle quali marchiate da insoliti tratti scandinavi ereditati dal padre triestino, Sergio. Della più piccola, Ilaria, ero segretamente infatuato e ciò rendeva la visita piuttosto frustrante, giacché era evidente che lei era infatuata di mio fratello. Con fatica, indossavo una maschera di ostentata indifferenza fino al momento di rincasare, fingendomi impermeabile agli sguardi infuocati tra Ilaria e Gianluca.

Come a L’Aquila, l’acme dei giorni romani coincideva con una serata di gioco, il gran casinò di Capodanno. Ci si trasferiva in massa nel Nuovo Salario, nell’elegante appartamento di Zia Gabriella. Gabriella Zaffiri in Rossi non mi è zia per parentela, bensì per meriti acquisiti. Lei e Mamma avevano condiviso la stanza dalle suore durante gli anni di Biologia, crescendo insieme i diciott’anni in una Roma sgargiante di Lambrette, tra un mezzo bacio rubato al cinema e il coprifuoco alle dieci; non un’amicizia, piuttosto una sorellanza, prima praticata, poi punteggiata ogni domenica mattina dalla telefonata di Zia, lei ancora a Roma, Mamma ormai lombarda. Sorellanza vidimata dalla nomina di Gabriella a mia madrina di battesimo, come una zia, più di una zia.

Nella sala da pranzo si riuniva tutti gli anni la stessa squadra, i Rossi, i Negro, i Taddei, i Malfa, i cui capifamiglia testimoniavano di un’Italia sì borghese, ma solida, fattiva, onesta; e gaudente. Dino Malfa portava la pistola lanciarazzi, pronto ad esploderla dalla grande terrazza che abbracciava tutta Roma Nord, illuminata a giorno dai boati d’artificio di mezzanotte. Lamberto Taddei coloriva di lazzi l’immancabile tombolata. Luigi Negro, mio padre, si scrollava di dosso la seriosità coatta del dirigente di multinazionale tedesca, riappropriandosi della sagacia cinica dei tempi romani. E Guido Rossi ottemperava con ironia i gratificanti compiti del padrone di casa. Era una festa, la più lunga dell’anno, si facevano le quattro di mattina che sembrava di essere appena arrivati.

Il primo gennaio si smaltivano i bagordi e si preparavano i bagagli per la partenza del 2. Altri 600 km, in direzione opposta: tornavo ad Arese, alla mia vita disciplinata di novenne, decenne, undicenne; agli amichetti, al calcio, ai primi spasmi d’amore. Eppure l’irruenza di quei dieci giorni nel cuore d’Italia, raggomitolato in una nicchia di affetto viscerale, a termine – quindi sovraesposto – scardinava ogni volta i miei giovani riferimenti e li segregava in qualche remota cavità dell’anima. Quando mesi dopo riuscivo a rintracciarli, grazie a lunghe perlustrazioni emotive e al definitivo ripristino delle consuetudini lombarde, era già tempo di contare le cento Lire nel salvadanaio e addomesticare l’attesa di un nuovo Natale.