Il mio dispotico programma di viaggio stamattina prevede un’uscita in kayak sul Saco River, altro luogo da agenzia viaggi. E allora mi bardo come Armstrong che esce dall’Apollo 11. Tre strati su busto e braccia – lana, poliestere da podista e pile da montanaro. Due strati sulle gambe – leggins e tutona da clochard. Doppia calza, moffola da bombardino a Cortina e cappuccio merinos: sono pronto ad aggiungere anche una guarnizione di piumino all’occorrenza. A fatica entro nella Nissan per riprendere la 302 verso il Maine. Dopo poche miglia North Conway si dirada e inselvatichisce, per l’ennesima volta da quando sono in New Hampshire ho l’impressione di essermi perso. Tra i miei innumerevoli talenti manca il senso naturale dell’orientamento. In patria mi arrangio coi nomi delle vie, qui la toponomastica è aleatoria, esistono le route e i riferimenti locali, gira a destra prima del McDonald, prendi il ponte coperto di fronte al Walmart: tutto semplice salvo quando si fa riferimento al trentottesimo albero sulla sinistra. Ordino alla ragione di tamponare l’ansietta crescente. La strada è giusta, l’ho controllata dieci volte: c’è da seguire la 302 e fanculo se intorno ci sono solo betulle e abeti, ora appare la sede del Saco Bound e ci facciamo la nostra rilassante pagaiata in kayak.
E così è. La Saco Bound si apre sulla destra dopo il decimillesimo abete. È una struttura larga in legno di palafitta con intorno centinaia di kayak accatastati un po’ ovunque nella desolazione di un parcheggio deserto. Malgrado lo scenario da western in cui il forestiero non fa una bella fine, piazzo l’auto davanti al saloon ed entro. Niente pistole o pianoforti scordati, solo una musichetta pseudo-country ad avvolgere un bancone disabitato. Non mi sorprende, i negozianti americani si fanno spesso i fatti loro, uscendo dalla tana del retrobottega solo se sollecitati dal campanello sulla porta d’ingresso. Campanello che stavolta non suona e neanche vedo sul bancone. Al secondo minuto di attesa, schiarisco la voce: «Is there anybody inside?»
Grugnito un I’m coming, si presenta colui che parrebbe mandare avanti la baracca: giacca di lana grigia sporca di grasso, pantaloni da lavoro, barbetta sfatta sul viso onesto. L’uomo zoppica, di quelle zoppie che non è un malanno temporaneo. Ci presentiamo e gli rovescio addosso il solenne dubbio di giornata: io, che ho testato il kayak vent’anni fa nelle acque immobili delle Maldive – e giusto per impressionare la novella sposa – è prudente che mi lanci lungo il Saco River, di cui dettagliate descrizioni online denunciano l’estrema imprevedibilità e la sovrabbondanza di rapide, dighe, castori e pellerossa acquattati sugli argini? No, perché ci terrei a continuare il viaggetto e magari riabbracciare la sposa in Padania.
Saco bound
«La tua consapevolezza ti fa onore, Sir: in tutta franchezza non rischierei la prima uscita in kayak su questo fiume e con questo tempo instabile.»
L’uomo vuole essere onesto come il suo viso, anche a costo di rinunciare ai soldi dell’escursione. Lo capisco, nemmeno a me piacerebbe avere sulla coscienza il cadavere di un cinquantenne a caccia di gioventù tardiva; eppure, se fossi istruito, accompagnato – come sul parapendio che si può volare in coppia – non so, forse me la sentirei di affrontare le insidie della navigazione e regalargli i trentotto dollaroni. La replica dello zoppo è però definitiva: in kayak dovrò salirci da solo, dovrò ammaestrare la corrente da solo, da solo dovrò evitare i tronchi galleggianti, aggirare le secche, incunearmi nei punti di sfogo quando incontrerò le dighe e approdare sei miglia più a sud dove lui verrà a recuperare ciò che arriverà di me. Mi concedo una decina di secondi per valutare l’infinita lista di pericoli fluviali e altrettanti per simulare una voglia maschia di mettermi alla prova; al termine della recita riparo nel collaudato senso adulto di responsabilità che proprio non mi consente di creare anche il più piccolo disagio alla Saco Bound. Grazie amico, sarà per un’altra volta – e abbi cura della gamba.
Nel frattempo si è unito a noi un ometto rotondo dalle chiare fattezze mediterranee, dev’essere Bob Scicchitano, presidente della Saco Bound e firmatario dei documenti ricevuti online. L’ometto conferma identità e origini, è bostoniano di madre ma calabrese di padre: ha tutta l’aria di uno che tiene grappoli di ‘nduja nella dispensa e conosce a memoria L’italiano di Toto Cutugno. Non indago, mi assicuro che non ci siano penali per la mia diserzione, dopodiché saluto l’allegra combriccola e lascio il set di Tarantino, gli sguardi appiccicosi di Bob e dello zoppo sulla schiena.
La rinuncia al kayak libera tre ore di programma che decido di bighellonare tra le griglie urbane di North Conway, ormai mio paese d’adozione. Acquistata un’armonica in SI maggiore al North Conway Music Center, aspetto e seguo la partenza della Conway Scenic Railway diretta alla tavolozza impressionista del Crawford Notch State Park. Poi prendo la 16 North per Pinkham Notch, con il cielo che è metà sole e metà pioggia. All’altezza dello svincolo per la 16A, l’alchimia atmosferica mi regala il più bell’arcobaleno mai visto: un semicerchio completo sopra l’asfalto, una specie di ponte mistico e luminoso, a surrogare i colori oggi opachi degli alberi. È l’arcobaleno finto, quello di Walt Disney, preludio all’Echo Lake, il lago finto di un paio d’ore dopo: altri doni da questa terra feconda. Domani lascerò il New Hampshire e già mi manca.
Pinkham Notch
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