Ho il Covid-19, da apprendista scrittore dovrei descriverne ogni sberleffo. Ma non ne ho voglia, una certa mollezza mentale, figlia dei farmaci e dell’autoisolamento coatto, non aiuta a concentrarmi. E poi non succede nulla che valga la pena raccontare: meglio, non succede proprio nulla. A meno che non si consideri interessante la mia ossigenazione sanguigna.
È strano, altre volte ho scritto papiri infiniti su uno sbadiglio, una lucertola al sole, un rubinetto che gocciola. E ora, che vivo dal di dentro ciò che ha devastato gli ultimi due anni di mondo, su cui ho pontificato senza requie dal di fuori, ora che potrei costruire la mia opera letteraria più monumentale, risultando pure credibile visto il contagio, sto zitto: bizzarro, no?
Mi ricorda quando mi ammalai forte, venticinque anni fa. Anche allora potevo stendere un capolavoro, il materiale narrativo era ghiotto, neolaureato borghese con tumore al testicolo affronta operazione, chemioterapia, controlli e reinserimento nella società civile. Detto che non giocavo ancora a fare il romanziere – questa presunzione è recente – avevo paura che a scriverne mi sarei paradossalmente distratto dalla malattia e avrei perso la presa su quanto occorresse fare per debellarla. Mi ero convinto di dover raggrumare ogni energia residua – fisica, emotiva, nervosa – in una specie di monolitica volontà di uscirne vivo, una determinazione ossessiva che escludeva qualsiasi altra attività che non fosse guarire.
Ecco, col Covid è uguale. La tentazione è di non fare nulla fuorché ingoiare pillole, nutrirmi e dormire fino alla fatidica negatività, che peraltro dista parecchi giorni di reclusione. Sennonché l’urgenza espressiva e la smania di autorappresentarmi sono fenomeni irreversibili ormai, e allora basta un nuovo evento, quale che sia, a sgrullarmi via l’abulia del convalescente e riarmare di penna la mano.
L’evento è la visita dell’USCA, l’Unità Speciale di Continuità Assistenziale. Trattasi di giovani medici arruolati per monitorare gli infetti agli arresti domiciliari. Sono attivati dal medico di famiglia in base al bollettino quotidiano sulla peste: la febbre staziona a 38 e mezzo? Attiviamo l’USCA. Si passa l’intera mattinata sulla tazza del cesso? Attiviamo l’USCA. Gli occhi piangono come neanche per Forrest Gump? Attiviamo l’USCA.
Nel mio caso la mobilitazione scatta quando alla dottoressa riferisco i valori anomali della saturazione – la presenza di ossigeno nel sangue. È un paio di punti sotto la soglia della normalità, ci sta, ho la peste, però la dottoressa mi conosce, sa che chiusa la telefonata mi fionderò su Amazon a ordinare un set di bombole da sub con consegna immediata. E attiva l’USCA. Mi chiameranno loro, io devo solo restare tranquillo e continuare la terapia (comunque c’è uno sconto di 5 € a bombola e con Amazon Prime la consegna è gratis).
L’USCA arriva prima del previsto, al telefono una voce femminile mi aveva infilato nella fascia 18-19, la stessa voce si presenta alle 15.30 nelle sembianze di una ragazza alta e procace dalle chiare origini nordafricane. Insieme a lei un prodotto autoctono di minuta razza piemontese. Le due entrano nel mio giardino con la disinvoltura di chi maneggia il Covid come una spazzola per capelli, mi chiedono solo di indossare la mascherina, già che nell’euforia di incrociare esseri umani dopo giorni di eremitismo sono andato loro incontro sorridente, ma proprio con tutti e trentadue i denti belli in vista.
Coperta la bocca e scemato l’imbarazzo per l’ennesima dabbenaggine, mi metto in standby aspettando istruzioni mentre l’intero vicinato si assiepa sui balconi, ché nessuno si vuole perdere il nuovo episodio della fiction “Il signor Negro e l’arte di affascinare il prossimo”. Io e i miei adorabili vicini osserviamo la dottoressa alta, che scoprirò essere tunisina, indossare una sorta di scafandro celeste, la dottoressa bassa preparare gli alambicchi per il test. Sono perfettamente sincronizzate, prive di alterazioni emotive, sanno cosa fare e lo fanno.
Ora mi devo sedere e tirare indietro la testa, è il momento del test naso-faringeo, quella fiocina che trafigge le narici, penetra in gola, scandaglia l’organismo fino agli alluci poi riesce dalle narici, provocando una lacrimazione da scolaro cui hanno rubato la merendina. Con la chemio ho provato di peggio, ma resta una pratica poco piacevole.
Il test è positivo, cioè negativo, cioè brutta notizia, il Covid ce l’ho davvero e pure bello arzillo: carica virale importante, secondo la dottoressa locale. Prima della sentenza definitiva avevo sperato di sfangarla, si legge di test fai-da-te poco attendibili, con rilevanti margini d’errore. Magari avevo sbagliato la procedura, magari il mio kit era difettoso, magari gli apprendisti scrittori sono immuni al Covid.
La verità è esplosa nel mio giardino, feroce come quest’afoso pomeriggio d’inizio estate: non sono l’essere speciale di Battiato, quello che siccome scrive, canta, apre i B&B, gioca benino a tennis, si è smazzato un cancro a ventisette anni – non solo, durante la pandemia si è vaccinato tre volte, si è sempre mascherato da Hannibal, ha rispettato zone gialle e rosse, ha deliberatamente eluso i rapporti coi propri simili – allora il Covid non se lo prende. Sono umano anch’io e non so se ciò mi rallegra o mi preoccupa.
Intanto che rimugino sulla mia banalità di uomo, la dottoressa esotica termina la vestizione, adesso sembra Neil Armstrong pronto ad allunare. Con grande scorno dei vicini la scena si trasferisce in casa, fine dello spettacolo, tornate pure dalla De Filippi.
Priorità principale adesso è verificare la saturazione prima che io riapra il carrello di Amazon e compri le bombole. Novantasette, novantotto, novantasette, novantanove, i numerini digitali sulla molla che la ragazza mi mette all’indice oscillano, ma in modo fisiologico, c’è abbastanza ossigeno nel sangue anche dopo un paio di rampe di scala. Non dovrò angosciarmi se nei prossimi giorni i valori scenderanno, le molle domestiche, detti anche pulsossimetri, segnano sempre qualche punto in meno rispetto alle molle dei medici – sottotesto: capiamo la tua ansietta da Over 50 che tutte le sere guarda Mentana snocciolare i dati sui ricoveri degli Over 50, però, di grazia, la prossima volta che starnutisci non ci chiamare!
Sondati anche polmoni, addome e cuore, l’astronauta che mi ha invaso il salotto raccatta i propri attrezzi e si riunisce alla collega in attesa sulla soglia di casa. Se avessi solo un grammo della gaia sfacciataggine di mio padre, per il quale infermiere, badanti, massaggiatrici erano tutte potenziali ospiti di terapeutici party casalinghi, offrirei una cedrata alle dottoresse invitandole a ripresentarsi alle 20 per una cenetta sotto le stelle – diamo ancora un po’ di show gratuito ai vicini, perbacco!
Ma sono un Over 50 malato di Covid che non si lava da tre giorni, loro due trentenni sane, pulite e rigogliose: il mio destino è la quarantena, il loro uno Spritz sul lungolago.
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